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MERCOLEDÌ 22 MARZO 2017

 

Stanotte ci ha lasciato Alfredo Reichlin. Partigiano, giovanissimo, a Roma, comunista italiano, uomo di punta della covata del “partito nuovo” di Palmiro Togliatti, giornalista di popolo, dirigente autorevole sempre, statista della Repubblica democratica fondata sul lavoro senza aver mai occupato posizioni istituzionali apicali, maestro morale e intellettuale per tante generazioni.
Le chiacchierate con lui sono state per tanti di noi, in anni e anni di incontri e cene, straordinari momenti di “politica come educazione sentimentale”, prima che formazione culturale e politica. Con lui abbiamo discusso i passaggi politici più complicati e dolorosi, fino agli ultimi strappi. Il suo punto di vista era necessario perché il suo sguardo era lungo e orientato all’interesse nazionale, declinato a partire dalle condizioni degli ultimi. Classe e nazione, come da migliore lezione di Gramsci.
In un’epoca di politica come competizione di vuoti ego ipertrofici, in lui come in altri grandi politici della sua generazione, continuava a vivere “la politica come Storia in atto”. Entrare a casa sua era ogni volta un’emozione per un parvenu come il sottoscritto. Mi hanno sempre intimidito le librerie a intera parete del corridoio e del suo studio, piene di sapere poliedrico e colorato. Era ogni volta, per me, ingresso in un santuario di storia e di politica. Una sede istituzionale. Rimaneva fuori la porta la politica dei comunicati stampa, dei giochini di Palazzo, dei gossip.
Negli ultimi anni era assillato, come scriveva spesso, dall’assenza a sinistra di una lettura aggiornata dell’Italia. Era disgustato dalla miseria della politica. Mi è rimasta stampata in mente una sua efficacissima sintesi delle tristi condizioni della politica oggi: “La finanza comanda, i tecnici eseguono e i politici vanno in televisione”. Qualche giorno fa, l’ultima volta che ho avuto il privilegio di discutere con lui, mi ha chiesto, “che cosa volete fare?”. Il sottinteso “voi” siamo noi, quelli che al di là delle contingenti collocazioni continuava a considerare un pezzo di classe dirigente della sua storia. Noi, quelli che avevano lasciato il Pd da tempo. Noi, quelli che avevano appena lasciato il Pd. È, infine, noi, i pochi rimasti seriamente nel Pd. Siamo alla disgregazione del Pd, non alla scissione, diceva.
L’ultimo passaggio di profondo travaglio per lui è stato il referendum sulla revisione costituzionale del 4 dicembre scorso. Aveva le idee molto chiare, una valutazione strutturata, lungamente meditata e discussa con le personalità più rilevanti della Repubblica e della sinistra. Tuttavia, sentiva acutamente la responsabilità e il significato dello strappo dalla sua comunità di riferimento, il Pd, nonostante tutto. Per lui, educato alla disciplina di partito, è stato doloroso contraddire la linea della segreteria. Ma la gerarchia dei suoi valori di comunista italiano gli intimava di anteporre il Paese alla propria parte. Motivò il suo doloroso “No”, la sua rottura, in un breve, ma efficace articolo affidato, come sempre, a L’Unità, il giornale che aveva diretto per tanti anni, oramai lontano.
Tante volte ho provato con lui a capire le ragioni profonde della vera svolta del PCI: quella sull’euro. Come è stato possibile, gli chiedevo, che voi, il gruppo dirigente che a fine anno ’80 riconosceva pubblicamente e correttamente la moneta unica come “strumento anti operaio”, poi si sottomettesse così passivamente ai principi liberisti dei Trattati europei e dell’euro-zona. Come è stato possibile per voi, gli domandavo, eredi di Gramsci e Togliatti, la resa alla lettura azionista, cattolico-liberale e liberal-socialista del “vincolo esterno”. Attenzione al determinismo economicistico, mi rispondeva. Aveva una sconfinata fiducia nel popolo italiano, ma conosceva bene le tare della incerta storia nazionale e aveva vissuto sulla sua pelle la qualità delle classi dirigenti del nostro Paese, l’indifferenza all’interesse nazionale della nostra incompiuta borghesia.
Sarà tutto più difficile senza Alfredo Reichlin. Ci stringiamo intorno alla famiglia. Un abbraccio a Roberta, a Lucrezia e Pietro e a Luciana. Lo ricorderemo alla Camera nelle forme adeguate. Rimarrà per noi un punto di riferimento culturale e politico imprescindibile.